Edward Hopper: lettere, scritti e testimonianze sul grande artista americano

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In Edward Hopper. Scritti, interviste, testimonianze, a cura di Elena Pontiggia, Abscondita 2000 sono raccolti per la prima volta tutti i principali scritti di Edward Hopper, unitamente alle sue più significative interviste e alle più importanti testimonianze di coloro che lo conobbero. Sia le sue pagine, sia i racconti di critici e artisti che lo incontrarono, nello studio in Washington Square a New York, oppure a Cape Cod, nella casa affacciata sull’oceano che lui stesso aveva costruito all’inizio degli anni Trenta, restituiscono un ritratto suggestivo e illuminante di uno dei maestri della pittura del Novecento. Hopper si riconferma una figura elusiva ed enigmatica (“Non so quale sia la mia identità. I critici ti danno un’identità, e a volte tu gli dai una mano” dichiara lui stesso), ma le sue rare dichiarazioni sono una chiave imprescindibile per conoscerne la personalità, le convinzioni, gli amori intellettuali. Edward Hopper (Nyack 1882-New York 1967) è il maggior esponente del realismo americano del nostro secolo. La sua pittura, ispirata alla scena americana, dove compaiono case vittoriane e binari ferroviari, fari sulla costa atlantica e caffè solitari, distributori di benzina e immagini di strade cittadine, è al tempo stesso quotidiana e metafisica. La sua opera, come è stato detto, è un’icona del mondo contemporaneo (Recensione tratta da IBS).

I brani che seguono sono tratti dal libro:

Lettera di Edward Hopper a Charles H. Sawyer, 29 ottobre 1939
Caro signor Sawyer,
Lei mi chiede qualcosa che forse è difficile come dipingere, cioè spiegare la pittura a parole. Per me, forma, colore e disegno sono solo mezzi che servono a uno scopo, strumenti di lavoro, e non mi interessano molto in se stessi. A me interessa soprattutto il vasto campo dell’esperienza e delle sensazioni, che non ha niente a che fare né con la letteratura né con l’arte di pure forme plastiche. Di «esperienza umana» bisogna parlare con cautela, per non correre il rischio di confonderla con il banale aneddoto. Ma mi ha sempre dato fastidio la pittura che si occupa solo delle armonie e dei contrasti del colore e del disegno.
Il mio scopo in pittura è sempre quello di usare la natura come mezzo, per cercare di fissare sulla tela le mie reazioni più intime di fronte al soggetto, così come mi appare quando lo amo di più: quando il mio interesse e il mio modo di vedere riescono a dare unità alle cose. Perché scelga certi soggetti piuttosto che altri, non lo so neanch’io con precisione, ma credo che sia perché costituiscono il miglior mezzo per sintetizzare la mia esperienza interiore.
(p. 15)

Edward Hopper, di Katherine Kuh
KUH: L’altro giorno a colazione dicevi che sarebbe bello un libro composto esclusivamente dalla vita degli artisti.

HOPPER: Non dicevo questo. Intendevo un libro che descrivesse il loro carattere, fragile o forte, passionale o freddo, e fosse scritto da gente che li ha conosciuti bene. L’opera è l’uomo. Una cosa non spunta dal nulla.

K: Dicevi anche che la maggior parte dei tuoi quadri non rappresentano degli ambienti conosciuti.

H: Domenica mattina presto è quasi una traduzione letterale della Settima Strada. Quelle case non ci sono più adesso. Ma molti miei quadri sono un insieme di ambienti diversi. Una volta, però, ho dipinto a Cape Cod una tela intitolata Pomeriggio a Cape Cod: una casa e un capannone ripresi direttamente dal vero. Anche altre opere sono precise trascrizioni di luoghi, ma sono molto precedenti.

K: Fai dei disegni preparatori?

H: Sì, di solito a matita o a pastello. Non li mostro mai, perché sono dei diagrammi, più o meno. Eseguo dei disegni preliminari delle diverse parti del quadro, e poi le metto insieme. I miei acquerelli sono tutti eseguiti dal vero, direttamente all’aperto e senza disegni. Ne faccio pochissimi in questo periodo, preferisco lavorare in studio. Molte mie cose nascono dall’improvvisazione. Vedi, gli acquerelli sono abbastanza aderenti al dato concreto. Negli oli elimino di più. È un vantaggio lavorare con una tecnica come l’olio, che permette correzioni e cambiamenti.

K: Vuol dire che preferisci lavorare lentamente?

H: Non credo sia per questo che realizzo pochi acquerelli. Il fatto è che gli acquerelli sono eseguiti dal vero e io dal vero non lavoro più. Ottengo di più lavorando in studio.

K: Tra le tue opere, quali sono quelle che ami di più?

H: Forse l’ultimo quadro che ho dipinto quest’estate, Secondo piano al sole. Rappresenta il piano superiore di due case, con una veranda e due figure, una donna giovane e una più vecchia. Non credo che le due figure contengano qualche simbolismo. Se c’è, è molto vago, certo non voluto ossessivamente. Ero più interessato alla luce sugli edifici e sulle persone che al simbolismo. Jo ha posato per tutte e due: è sempre lei che posa in ogni quadro. Altre due opere che amo molto sono Mattina a Cape Cod e Nottambuli. Quest’ultima mi è stata suggerita da un ristorante del Greenwich Village, posto all’incrocio di due vie. Nottambuli è forse il mio modo di pensare una strada di notte.

K: Solitaria e vuota?

H: Non mi sembrava particolarmente solitaria. Ho semplifìcato molto la scena e ho ingrandito il ristorante. Probabilmente inconsciamente ho dipinto la solitudine di una grande città. Mi piace molto anche Domenica mattina presto, ma non era necessariamente domenica. La parola è stata aggiunta dopo da qualcun altro.

K: E Mattina a Cape Cod? Perché l’hai citata specificamente?

H: Forse perché si avvicina a quello che sento più di altri quadri. Ma non mi sembra importante sapere esattamente quello che sento.

K: Trascorrere le estati a Cape Cod ha influenzato il tuo lavoro?

H: Penso di no. Ho scelto di vivere lì perché lì le estati sono più lunghe. Il Maine mi piace molto, ma in autunno fa troppo freddo. C’è qualcosa di molle a Cape Cod che non mi va. Ma c’è una luce meravigliosa, molto intensa, forse perché è così protesa sul mare: è quasi un’isola.

K: Pensi che i viaggi che hai compiuto da giovane in Europa ti abbiano influenzato?

H: Veramente non lo so. Ho eseguito molte opere in Europa, quadri che un giorno verranno esposti, credo. Sono piuttosto lirici, una sorta di impressionismo o di impressionismo modificato. Io sono ancora un impressionista, penso.

K: Perché?

H: Forse le mie semplificazioni dipendono in qualche modo dall’impressionismo. Per me l’impressionismo era l’impressione immediata. Ma sono più interessato al volume, naturalmente. Anche alcuni impressionisti lo erano, sai. La pittura francese, anche quando è superficiale e leggera, è volumetrica. Pensa a Fragonard.

K: Quali sono i pittori antichi che ammiri?

H: Rembrandt soprattutto, e l’incisore Méryon. Ha una luce romantica, c’è tutta l’essenza della luce nella sua incisione Lucernario in Weavers Street. Rembrandt è straordinario. Amo molto anche Degas.

K: Da chi è stato maggiormente influenzato il tuo lavoro?

H: Io mi sono sempre riferito a me stesso. Non so se qualcuno mi abbia influenzato.

K: Pensi che il tuo lavoro sia essenzialmente americano?

H: Non so. Credo di non aver mai cercato di dipingere la «scena americana»; io cerco di dipingere me stesso. Non vedo perché mi si deve far rientrare a forza nella «scena americana». Eakins non lo si fa rientrare. Come la maggior parte degli americani, sono un amalgama di molte razze. Forse mi hanno influenzato tutti: gli olandesi, i francesi, magari i gallesi. Gli olandesi del fiume Hudson, non gli olandesi di Amsterdam.

K: Si dice sempre, parlando del tuo lavoro, che la solitudine e la nostalgia sono i tuoi temi.

H: Se lo sono, non è per niente qualcosa di conscio. Probabilmente sono un uomo solo. E anche la nostalgia non è voluta. La gente trova qualcosa nel tuo lavoro, la traduce in parole e poi va avanti per sempre. Del resto, perché non dovrebbe esserci nostalgia nell’arte? Io non ho temi voluti consciamente.

K: Cosa vuoi dire? Per esempio, non avevi un tema per Secondo piano al sole?

H: Questo quadro è un tentativo di dipingere la luce del sole bianca, con nessuno o quasi nessun pigmento giallo nel bianco. Ogni interpretazione psicologica dovrà essere aggiunta dall’osservatore. Ma dipingere la luce non è stata la spinta iniziale. Io sono un realista e reagisco ai fenomeni naturali. Da bambino sentivo che la luce della parte alta di una casa era diversa da quella della parte bassa. C’è una sorta di gioia che riguarda la luce sulla parte alta di una casa. Sai, le idee e le spinte che ti portano a dipingere sono tante, non ce n’è solo una. La luce è un’importante risorsa espressiva, per me, ma non in modo così conscio. È il mio modo naturale di esprimermi.
(pp. 63-66)

Edward Hopper, pittore metafisico, di Elena Pontiggia
In una conversazione con Katherine Kuh, Hopper ci informa di un particolare che non è privo di importanza. Nel quadro Early Sunday Morning (Domenica mattina presto), che rappresenta un edificio silenzioso, con negozi e appartamenti vuoti, il titolo non si deve a lui, ma è stato aggiunto in seguito. «Non era necessariamente domenica» dichiara l’artista. Il suo scopo era rappresentare la Settima Strada di New York in quell’attimo straniato in cui il movimento della vita cede all’immobilità metafisica.
Non sappiamo chi abbia battezzato il quadro Domenica mattina presto. Sappiamo però che, in questo modo, ha voluto disinnescare e normalizzare il suo significato: nelle prime ore di un giorno festivo è ovvio che i negozi siano chiusi e la strada deserta. Ma il meccanismo logico di Hopper è opposto: la sua vocazione non è l’ovvio, ma l’inaspettato, non la retorica da chansonnier della tristezza domenicale, ma l’intuizione emersoniana che «i fondamenti sono nello spirito e l’elemento dello spirito è l’etemità».
Il faro e la casa sulla collina, perfetti come idee iperuraniche, come forme originarie colte nella loro vita nascosta e nella loro causa ultima, portano impresso il sigillo dell’eternità. La luce che li avvolge non è il chiarore atmosferico, ma una luce che non conosce variazioni.
La genialità del «de Chirico americano », come lo definirà Stuart Preston, è stata quella di capire che, per alludere all’aspetto spirituale della natura visibile, non occorrevano soggetti solenni, temi nobili. Bastava un passaggio a livello, una casa, un tetto.
Non diversamente, in fondo, Dante nel suo viaggio non sceglie come interlocutori i grandi personaggi dell’umanità. Avrebbe potuto incontrare Cesare e Augusto, interrogare Omero, Aristotele, Platone. Invece parla della sua città, trasloca ad altezze ultraterrene la Firenze di Corso Donati e di Mosca Lamberti.
La Commedia di Hopper (Due commedianti è il titolo dell’ultima opera che dipinge prima di morire, in cui rappresenta se stesso e la moglie che si inchinano davanti a un immaginario pubblico, dopo la recita) si svolge in un atrio d’albergo, ai margini di un bosco, nei vagoni di un treno, in un hotel vicino alla ferrovia. Cose trascurabili, di per sé. Ma che, grazie a uno stile incentrato sull’essenzialità e sulla sintesi (su quelle che Hopper chiamava «semplificazioni»), rivelano, per dirla con Emerson, le loro grandi proporzioni.
Il mondo delle forme prime Hopper non lo trova nell’Iperuranio, ma a Cape Cod, a Cape Elizabeth, a Two Lights, tra i fari della costa atlantica e i tetti di Washington Square. Gli basta, apparentemente, poco: una balaustra ideale, che allontana l’immagine dal primo piano; un’angolatura prevalentemente obliqua e dinamica, che sottolinea la distanza tra chi vede, ed è immerso nel flusso del divenire, e ciò che è visto, che si staglia immobile sullo sfondo.
È allora, in quell’intuizione vertiginosa, che la visione diventa assoluta. Ed è allora che l’immagine può apparire in una luce abbagliante, trionfale, o al contrario intridersi della malinconia di chi teme, nella vita e nell’essere stesso, un’assenza di significato.
Più che per la mancanza di compagnia, certe figure di Hopper soffrono (e qui la distanza da Emerson è radicale) per la mancanza di un senso da dare alla realtà. Gli alberghi e i binari ferroviari, così ricorrenti nelle sue opere, sono simboli di una condizione di straniamento e di esilio. Non è un caso che le immagini più solari, più felici, siano quelle in cui l’uomo non compare, e in cui la luce crea un ordine maestoso, nella tavola pitagorica della natura.
Hopper è stato il Vermeer del XX secolo. Destinato agli stessi equivoci. Di fronte alla Donna che versa il latte di Vermeer, al Rijksmuseum di Amsterdam, c’è sempre qualche guida che ricorda come quel quadro sia «un’opera importante perché segna l’ingresso nell’arte della categoria dei lattai». Di fronte a Gas di Hopper, i critici hanno notato che per la prima volta viene rappresentata una pompa di benzina, preludio della Pop Art. Ma l’importanza dell’opera di Hopper non dipende dalla presenza del distributore, come quella di Vermeer non derivava dall’esistenza della lattaia. La stazione della Mobilgas, assunta in un cielo geometrico, con le colonne rosse delle pompe e le semisfere dei capitelli, la scatola magica del chiosco e la dimessa insegna araldica del cavallino alato, perde ogni petulanza quotidiana, per diventare un’icona dolorosa del «progresso» contemporaneo. L’uomo del XX secolo ha inventato la macchina. Ma, come i suoi predecessori, non sa da dove viene né dove porta la strada che percorre, e che si perde nelle ombre del bosco.
(pp. 107-109)