“Lizzie” di Shirley Jackson. Recensione del romanzo

di Silvia Santorsa

Il romanzo “Lizzie” ha una trama sui generis, particolareggiata, dalla prospettiva alternata. È uno stratosferico viaggio nella oscura e inquietante interiorità paragonabile alla catabasi della letteratura greca e latina: dalla superficie terrestre, nell’Eneide collocabile nelle vicinanze di Pozzuoli e sotto la guida della Sibilla Cumana, si discende lentamente in un mondo inesplorato che rivela una realtà che è molto più complessa di quanto sembri, perché si incontrano anime molto spesso con virtù profetiche. In questo romanzo non vi è alcun drastico mutamento di paesaggio, nessuna prospettiva profetica o intento politico, ma si scava all’interno della psiche e delle sue sfaccettature, in un turbinio di emozioni, abitudini, voci, espressioni e vizi, insomma caratteri diversi che sgorgano ineluttabili dalla stessa persona fisica. Questo è il viaggio di Elisabeth, una ragazza che definire metodica sarebbe un eufemismo, la quale conduce una vita monotona tra il museo dove lavora e casa della zia ed il cui unico brio entusiastico consiste in queste anonime epistole indirizzate direttamente a lei che prorompono tra le scartoffie disordinate sulla sua scrivania. Così la monotonia di una vita medio-borghese sta per essere stravolta da alcuni segnali premonitori, prodromi della quasi catastrofica vicenda che investirà i protagonisti del romanzo.


Qui subentra un particolare giuoco che salda in un connubio fittizio e reale allo stesso tempo una vicenda
psichiatrica di pubblico dominio e rinomata dalla opinione pubblica dell’epoca e sintomi fisici che attanagliavano l’autrice. Siamo nel 1952 e l’autrice soffre di insonnia e dolori lancinanti alla testa e alla schiena, così come Elisabeth, motivo per cui la stesura del libro si prolungò per molto tempo, dato che nell’estate del 1953 l’autrice fu costretta da tali attanagliamenti a interrompere la scrittura, per riprenderla soltantomesi dopo, seppur i dolori non le regalassero tregua e non l’abbandonassero minimamente. In questo periodo, però, l’opinione pubblica fu scossa da una sensazionale e affascinante contingenza psichiatrica: il caso di Christine Costner Sizemore, affetta da personalità multiple, che ammaliò artisti e personalità sensibili dell’epoca a tal punto da ispirare diversi scrittori, tra cui non solo la Jackson, ma anche Corbett Thigpen e Hervey Cleckley nel libro “The Three Faces of Eve”. Alla sua uscita, il romanzo non riscosse molto successo, ma fu rivalutato nel 2014, quando fu edito anche in Italia da Adelphi.

Al di là di queste bizzarrie tecniche che rendono peculiare ed ingioiellata la storia della genesi di ciascun libro, occorre analizzare le trepidazioni ed i turbamenti che questo romanzo imprime nell’animo del lettore. La mia esperienza personale con questa narrazione è stata in primo luogo problematica. Nonostantel’incipit, seppur non sensazionale, sia ben strutturato e congeniato, come vuole la poetica pindarica, secondo cui, alla stregua di un edificio, la cui maestosità è affidata alle colonne dorate, è necessaria “al principio della composizione porre una fronte che irraggi lontano”, non mi aveva coinvolta, anzi, l’avevo reputato ridondante e non balzano a sufficienza, con questa descrizione pomposa e minuziosa del crollo delle fondamenta del museo. “Poteva instaurarsi a questo punto una riflessione filosofica sul valore del museo come contenitore di cultura, sulle radici della nostra cultura, che, seppur salde, danno origine a un albero sbilenco e poco robusto”, pensai. Un’occasione sprecata. Mi alzai dal letto, dove mi ero distesa a pancia in giù per rivolgermi meglio verso la luce della finestra con le tendine inamidate, e con un gesto di sufficienza riposi il libro sullo scaffale senza curarmi nemmeno di aggiustarlo e allinearlo al resto della libreria. Così rimase lì a prendere polvere per un paio di settimane, fino a quando non esaurii la scorta di libri che avevo accumulato nell’ultima scorribanda in libreria. Era un giovedì uggioso quando lo ripresi tra le mani e decisi di dargli una seconda possibilità. Così lessi tutto d’un fiato il primo capitolo. Il mio gusto si soffermò su ciò che avevo notato già nella prima lettura, lo stile, che nell’incipit era così minuzioso su qualcosa che mi sembrava superfluo, ma approfondendo la lettura, lo trovai particolarmente ammaliante, avvincente, esaltante. È uno stile che approfitta del lessico per far catapultare il lettore nella routine quotidiana di Elisabeth, facendo evincerne una vena inquietante con l’allusione al malessere della protagonista. Il primo capitolo è tutto nelle mani dell’autrice, è necessario, come un proemio di un’opera teatrale, di un poema epico. Che forse, tratti del teatro e del poema epico evincono nell’opera: il racconto è teatrale nel mettere in scena diversi personaggi sotto la stessa maschera (ma ci ritorneremo a tempo debito), è epico nel senso eroicomico del genere, in cui il protagonista fa emergere il tratto propriamente grottesco di se stesso (ma ci soffermeremo anche su questo). Assaporai ogni parola con gusto, come chi, dopo aver digiunato per giorni, si ritrova a mangiare in un ristorante stellato e riesce a percepire ogni nota aromatica poggiarsi sul suo palato. Così mi piaceva soffermarmi sulle parole della Jackson per sviscerarle e coglierne i significati più nascosti. Perché il primo capitolo è venato da quel presentimento che nella tragedia eschilea viene definito ‘deinòn’, ‘tremendo’, ‘terribile’. Inquietante, ecco come definire il primo capitolo, a partire dalla voragine che si apre nello studio di Elisabeth, per poi continuare con una serie di episodi strani dal punto di vista delle convenzioni sociali a cui il lettore partecipa attraverso la visione della protagonista, quindi ne è in parte ignaro, può immaginare in base alla reazione degli altri personaggi.

Il secondo capitolo è scritto, invece, dal dottor Wright, un medico che nei suoi appunti fa evincere una presuntuosa velleità letteraria, ma conserva comunque uno sguardo scientifico, descrittivo, con poche riflessioni esclusivamente specialistiche, direi che talvolta sfiora il cronachismo. Ecco perché la trama del racconto è alternata, perché il suo punto di vista sulla vicenda cambia di capitolo in capitolo, evitando la monotonia e ravvivando sempre la mente. La questione si fa più complicata, nelle sedute ipnotiche nello studio, cominciano a emergere, a venire a galla l’una dopo l’altra le varie personalità di Elisabeth a cui il dottor Wright assegna nomi diversi: Lizzie, Beth, Betsy, Bess. Ciascuna di esse ha una peculiarità caratteriale emergente ed una propria forza tale da spodestare di volta in volta le altre. Mi incuriosì l’evolversi della vicenda, quell’andirivieni teatrale che non cambia mai maschera, l’impellente interesse nel conoscere più a fondo i motivi di tale travaglio psichico, di stringere amicizia ancora più saldamente con ciascuna personalità. Ovviamente la parte descrittiva prevale, come d’altronde anche nel capitolo precedente, per necessità, per svelare gli aspetti esterni della personalità multipla. Ma il lettore rimane sì incuriosito, ma lievemente turbato: le personalità si susseguono un po’ disordinatamente, ma sono sempre tenute d’occhio dall’ipnosi medica. Niente può andare storto, fin quando, alla fine del capitolo, la personalità di Betsy prende il sopravvento e la sua ottica permea il terzo capitolo.

Il terzo capitolo rimane il capitolo, a mio modestissimo parere, più estatico della narrazione, il culmine di un crescendo di suspense. Qui le personalità si susseguono caoticamente nel caotico clima newyorkese, ma non vi è il dottor Wright a discernerne l’una dall’altra, bensì tocca al lettore indovinare chi abbia le redini del corpo di Elisabeth. Assomiglia a un flusso di coscienza incontrollato, non strutturato né pensato come tale. Alla mia mente richiama l’eco di sottofondo dello stile della Beat Generation. Ma cominciano pian piano a affiorare dei tasselli della storia pregressa di Elisabeth, orfana da piccina di padre, sola con una mamma ed un certo Robin, figura losca, i quali sono nel mirino della ricerca della personalità infantile di Betsy, la quale sembra essere all’oscuro della morte della mamma. L’atmosfera della città, della camera d’albergo, delle persone sconosciute che si incontrano, sembra un’avventura tragicomica nella mente del lettore, la cui curiosità aumenta, la cui apprensione aumenta e il cui battito cardiaco s’accelera. È una scarica di adrenalina e di inquietudine. Le emozioni che il libro riesce a suscitare raggiungono qui il loro culmine. La narrazione si ammanta di un’energia oscura di forze sconosciute che sfuggono, rifuggono, ritornano e spariscono.

Poi si alternano di nuovo le prospettive del Dottor Wright, della zia Morgen, dell’autrice stessa. Entra in scena una nuova personalità: Bess, colpita profondamente dal recente lutto della mamma, tutta assorta nel suo avaro pensiero dell’eredità. A mio parere di qui in poi, sebbene il pathos cresca attraverso frequenti litigi e descrizioni di conversazioni dal tono altezzoso tra vari personaggi, la narrazione tende a diventare piatta e a risolvere tutte le questioni che erano state lasciate in sospeso. Il finale regala al lettore la parvenza di una tanto ricercata serenità, grazie alla ricerca del nuovo nome da assegnare alla protagonista, come se fosse non la fine di una storia, ma l’inizio di un’altra.

Sebbene mi abbia entusiasmata e affascinata, trascinata nel turbinio delle personalità, confusa, commossa e rabbrividita, non sono rimasta totalmente soddisfatta dal libro in generale. Questo perché, credo, l’intento dell’autrice e il presunto risultato della mia ricerca tra le pagine era diverso. L’autrice non intende spiegare i motivi, andare in fondo alla questione psicologica, ma descrivere e raccontare una storia di personalità multipla, senza divagare, una narrazione asciutta, senza filosofia, perché riserva al lettore il pesante compito di decidere, farsi un’opinione, riflettere. È un libro che invita in sordina alla riflessione, presentando soltanto la vicenda, ma da angolazioni diverse, affidando tutti gli strumenti per costruire un dibattito su un tema vivamente sentito all’epoca, per sensibilizzare su un tema ancora oggi considerato tabù, ossia la sanità mentale. In questo si rivela l’attualità dell’opera: il cervello, come tutti gli altri organi si ammala, tale malattia colpisce persone senza macchia, come Elisabeth, quasi anonima. Ma Elisabeth non è condannata, anzi, è accompagnata per mano verso una rinascita, che è glorificata attraverso il battesimo finale.