Oscar Wilde e Lord Alfred Douglas: una lettera ed una poesia per un grande amore

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Ecco la lettera che il poeta inglese Oscar Wilde ha indirizzato all’amato lord Alfred Douglas. Il testo fa parte di una serie di missive che Wilde, dal carcere nel quale era stato rinchiuso con l’accusa di sodomia, aveva fatto recapitare al ragazzo che amava profondamente.

“Mio carissimo ragazzo,
questa mia è per rassicurarti del mio eterno amore per te. Domani tutto sarà finito.
Se la prigione e il disonore saranno il mio destino, pensa che il mio amore per te e l’idea, la convinzione più ancora che divina, che tu mi contraccambi, mi sosterrà nella mia infelicità e mi renderà capace, spero, di sopportare pazientemente il dolore. Poiché la speranza, o piuttosto la certezza, di incontrarti di nuovo da qualche parte, è lo scopo e l’incoraggiamento della mia vita attuale, ah! Devo continuare a stare al mondo per questo.
Il caro… è venuto a trovarmi oggi. Gli ho dato diversi messaggi per te. Mi ha detto una cosa che mi ha rassicurato: mia madre non ha bisogno di nulla. Ho sempre provveduto a lei e l’idea che potesse soffrire di qualche privazione mi rendeva infelice. Per quel che ti riguarda (grazioso ragazzo dal cuore di Cristo), ti prego, appena avrai fatto tutto quello che puoi, parti per l’Italia, riacquista la tua tranquillità e scrivi quelle poesie che solo tu sai con quella tua grazia unica. Non esporti in Inghilterra, per nessuna ragione.
Oh se un giorno a Corfù, o in qualche altra isola incantata, ci fosse una piccola casa dove vivere insieme!
La vita sarebbe più dolce che mai.
Il tuo amore ha grandi ali ed è forte, il tuo amore arriva a me attraverso le sbarre della prigione e mi conforta, l’amore è la luce che illumina le mie ore.
Coloro che non sanno cos’è l’amore, so che scriveranno, se il destino ci sarà avverso, che io ho avuto una cattiva influenza su di te. Se sarà così, tu dovrai scrivere a tua volta che si tratta di una falsità.
Il nostro amore è stato sempre bello e nobile, se sono stato la vittima di una terribile tragedia, è perché la natura di questo amore non è stata compresa.
Nella lettera di questa mattina dici una cosa che mi dona coraggio. Devo ricordarla. Scrivi che è mio dovere, nei tuoi confronti e nei miei, vivere nonostante tutto. Credo che sia vero. Proverò a farlo.
Voglio che tu tenga il signor Humphrey informato sui tuoi movimenti, così quando verrà potrà dirmi cosa stai facendo. Credo che gli avvocati possano vedere i prigionieri abbastanza spesso. Così potrà comunicare con te.
Sono contento che tu te ne sia andato. So quanto deve esserti costato. Ma sarebbe stata un’agonia per me saperti in Inghilterra, quando il tuo nome fosse venuto fuori durante il processo. Spero che tu abbia copie di tutti i miei libri, le mie sono state vendute.
Tendo le mie mani a te. Possa io vivere per toccare le tue mani e i tuoi capelli. Penso che il tuo amore vigilerà sulla mia vita. Se dovessi morire voglio che tu viva una vita serena da qualche parte, circondato da fiori, libri, dipinti e tanto lavoro.
Cerca di farti sentire presto. Ti sto scrivendo questa lettera in mezzo a una grande sofferenza; questa lunghissima giornata in tribunale mi ha reso esausto.
Carissimo ragazzo, dolcissimo fra tutti gli uomini, il più amato e adorabile. Oh aspettami! Aspettami!
Sono ora, come sempre da quando ci siamo incontrati, con eterno amore devotamente tuo”,
Oscar.

Di seguito una poesia scritta da Lord Alfred Douglas e dal titolo “Due amori”:

“Sognai di stare su un piccolo colle
e un piano ai miei piedi s’apriva simile
a vasto giardino che a suo talento fioriva
di fiori e boccioli. V’erano stagni sognanti
placidi e cupi, e candidi gigli,
sparuti, e crochi, e violette
purpuree e pallide, fritillarie sinuose,
rade presenze fra l’erba in rigoglio, e tra le verdi maglie
occhi blu di vergognose pervinche brillanti nel sole.
E strani fiori v’erano, mai prima saputi,
tinti dai chiari di luna, che Natura
formò con accorto capriccio, e qui uno
che bevve nei toni sfumanti
d’ un attimo breve al tramonto, steli
d’erba che in centurie di primavere
le stelle nutrirono in guise lente e squisite,
bagnati da odorosa rugiada adunata in coppe
di gigli, che nei raggi di sole hanno visto
solo la gloria di Dio, perché mai un tramonto rovina
l’aria luminosa del cielo. Oltre, inatteso,
un grigio muro di pietra coperto di morbido muschio
s’alzava; e in lunga contemplazione rimasi, affatto stranito
a vedere un luogo sì insolito, dolce, bello,
e mentre io stavo stupito, ecco! Attraverso
il giardino un giovane venne, levò in alto una mano
a schermirsi dal sole, i suoi capelli mossi dal vento
intrecciati di fiori, e nella mano portava
un grappo sanguigno d’uva rigonfia, chiari i suoi occhi
come cristallo, nudo,
bianco come la neve su inaccessibili vette gelate,
rosse le labbra quasi sparse di vino rosso che macchia
suolo di marmo, di calcedonio la fronte.
E venne accanto a me, con labbra socchiuse
e gentili, mi prese la mano e la bocca baciò,
e uva mi diede a mangiare, e disse “Dolce amico,
vieni, ti mostrerò le ombre del mondo
e le immagini della vita. Vedi, da Sud
avanza pallido corteo che non ha mai fine”.
Ed ecco! Nel giardino del mio sogno
due giovani scorsi che camminavano su un piano brillante
di luce dorata. Uno pareva gioioso
e bello e fiorente, e una dolce canzone
moveva dalle sue labbra; cantò di graziose fanciulle
e l’amore gioioso di avvenenti ragazzi e ragazze,
luminosi i suoi occhi, e fra gli steli danzanti
dell’erba dorata i suoi piedi per gioia avanzavano in tremito;
e in mano reggeva un liuto d’avorio
con auree corde come chiome di donna,
e cantava con melodiosa voce di flauto
e attorno al suo collo tre ghirlande di rose.
Ma accanto il suo compagno veniva;
triste e dolce, e gli ampi suoi occhi
erano strani d’ un chiarore mirabile, sbarrati
in contemplazione e molti sospiri mandava
che mi commossero, e le sue gote erano bianche ed esangui
come pallidi gigli, e rosse le labbra
come papaveri, e le mani
continuamente serrava, e il capo
era intrecciato di margherite pallide come labbra di morte.
Un panno purpureo indossava trapunto d’oro
segnato da un grande serpente il cui respiro
era fiamma di fuoco: quando lo vidi,
scoppiai in lacrime e gridai: “Dolce giovane,
dimmi perché, triste ed ansante, tu vaghi
per questi reami di sogno, ti prego il vero di dirmi,
qual è il tuo nome? Rispose: “Amore è il mio nome.”
Poi, subito, il primo a me si rivolse
E gridò: “Mente: il suo nome è Vergogna.
Ma io sono Amore, ed ero solito stare
da solo in questo giardino, sin quando egli venne,
inatteso, la notte; io sono Amore verace e riempio
i cuori a fanciulli e fanciulle di reciproco ardore.”
Poi fra sospiri l’altro mi disse: “Fa’ ciò che vuoi,
io sono l’Amore che non osa dire il suo nome.”