“Al lento vacillare stanco”: una poesia di Cesare Pavese

Foto di Rodney Smith
Foto di Rodney Smith

Al lento vacillare stanco
di un’altra fiamma perduta,
al lento disfarsi e svanire
del mio amore ormai lontano,
che pure mi diede tant’ala
a levarmi sul mondo
e tante cose dolci e segrete
mi cantò nell’orecchio,
o, più profondo, nel cuore vivo,
cose trepide di dolcezza,
che nessuno saprà mai,
che mai saprò ridire,
al dileguarsi inesorabile di tutti i mie i sogni
al morire di un’altra illusione:
mi ritorna nell’anima il monotono ritmo del tempo,
la vita orrenda, sempre uguale,
e il martellare dei pensieri inutili,
l’interminabile struggermi grigio
in mezzo allo spettacolo del mondo
sempre uguale,
ma tanto misterioso e terribile
di gioie e dolori,
che fa chiudere gli occhi e raccogliersi in sé,
quasi un rombo improvviso
che rintroni il cervello.
Ma nella vita così fatua e triste,
dileguato lontano il bel sogno sereno,
mi riafferrano a tratti,
ferocemente improvvisi,
struggimenti di desiderio,
soffocamenti folli,
lancinanti come ferite
che si riaprono d’improvviso
ad un urto violento,
ali tronche e rabbiose
d’un grande sogno che vivo
senza comprendere certo
che cosa sia mai.
Desiderio per tutte le donne che passano in strada,
per un viso, un bel corpo,
una febbre sensuale che mi rugge nel sangue.
Io le seguo con l’occhio perduto le donne che passano
E ogni volta mi par di lasciare
sul loro cammino,
ch’è così tiepido e profumato,
della carne strappata e del sangue, una brama viva.
E tutte mi sfiorano e poi:
dileguate per sempre.
Invidia dei meravigliosi suicidi d’amore,
quando l’ultima stretta folle s’inonda di sangue,
violento, porpureo,
e se ne bagnano i cuscini e la rivoltella,
e tutto è come esaltato,
rintronato dal rombo;
e gli occhi malcerti muoiono
negli occhi del viso supino che già si raffredda,
ma la bocca disperatamente
cerca ancora la bocca adorata.
Desiderio pazzo di un’impresa eroica,
che mi sollevi sul mondo
e possa rinchiudermi in me, sopraffatto d’orgoglio,
che almeno nei gesti si plachi,
per un istante di gloria
tutta la febbre che mi freme nel cuore
e quando tace mi è più spaventosa.
Esaltamento che mi stringe dinanzi ad ogni opera grande,
ad ogni spettacolo immenso e titanico,
davanti a una grande stazione,
su un molo lanciato sul nel mare,
tra le navi enormi
e la forza pesante degli argani,
dei sibili, delle antenne
protese sull’infinito.
Ma dopo queste povere spasmodiche fiamme,
le invidie violente e gli struggimenti d’amore,
dopo gli esaltamenti di gloria,
senza scampo, sempre,
come un colpo che mi tolga ogni forza,
ma mi faccia rabbrividire
di un dolore tremendo,
mi strazia e mi piange nel cuore
la coscienza improvvisa del mio male,
la coscienza della miseria dell’anima mia,
miseria tremenda
che è fatta di stanchezza e di tedio
di debolezza vile
e di disperazione.
E talvolta per un pensiero improvviso quest’orrore m’assale
mentre su un libro famoso
io m’esalto nell’anima grande
di un poeta,
ed allora d’un tratto mi lacera l’anima,
mi soffoca il cuore
ogni alito bello,
mi raggela ogni fiamma
ed io in un attimo altissimo, mi guardo d’intorno,
senza sangue più nelle vene,
pallido colle guance ardenti,
sentendomi gonfio di pianto
come un bambino battuto,
ma in una grande solitudine
che mi fa silenzioso e m’inchioda ogni gesto ribelle,
quasi uno stupore di spasimo,
una pausa religiosa
di dolore indicibile,
che mi contorce l’anima spietatamente,
ma in un profondo silenzio.
Ma poi subito mi alzo e il mio corpo si torce,
rabbrividisce, scattando
in gesti sfrenati
e grand’urli mi fremono in gola,
mi scuotono il petto a schiantarlo,
senza ritegno soffro
soffro tremendamente,
senza una speranza,
perduto nella mia rovina immensa.
E nemmeno più il pensiero del suicidio
che altre volte mi sorrideva
mi leva più quel macigno dal cuore,
ma soffro soffro tremendamente.
Poi, più malsicuro e avvilito,
dolorando,
sotto una calma fremente,
riprendo il monotono ritmo di prima,
la vita orrenda sempre uguale,
e il martellare dei pensieri inutili,
l’interminabile struggermi grigio,
senza più veder nulla sentir nulla,
se non l’eco disperata
della mia grande rovina.
Ed erro per le vie,
silenzioso,
solo,
e più nulla mi scuote
e sento il mio freddo ma nulla mi vale
ché nel cuore non ho che rimpianto
di ciò che ho perduto,
per la miseria dell’anima mia,
l’orribile miseria che è fatta di stanchezza e di tedio
e di disperazione.
E così torno ad assistere allo spettacolo del mondo
lo spettacolo sempre sempre uguale.
Vita vita tremenda
che mi agitavi in un dolore ardente
e mi sconvolgevi nel cuore
ogni goccia di sangue,
in una pienezza indicibile,
che mi mutava il colore la voce e fin gli ultimi gesti
ad ogni apparire leggero
dei suoi occhi profondi,
scuri cupi,
perduti
nel viso pallido triste
sotto la live nuvola bionda,
fragile come il suo corpo,
dei tenui capelli evanescenti:
vita vita di sogno
perché ti sei spenta
così nel mio cuore?

(17 Agosto 1927)

Cesare Pavese